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Il lavoratore, il cui rapporto di lavoro si trasformi in part time verticale, ha diritto a fruire integralmente dei tre giorni di permesso mensile di cui alla legge n. 104/92, solo quando l'orario settimanale comporti una prestazione per un numero di giornate superiore al 50% di quello ordinario.

Lo ha stabilito la Corte di Cassazione, con sentenza n. 22925 del 29 settembre 2017, riguardo il caso di un dipendente al quale l'azienda, dopo la trasformazione del rapporto di lavoro in part-time verticale (con una prestazione lavorativa articolata su quattro giorni a settimana in luogo di sei) aveva illegittimamente riproporzionato i tre giorni di permesso ex art. 33 della legge n. 104 goduti in precedenza, nella misura di due mensili.

La Suprema Corte rigetta il ricorso della società datrice di lavoro, confermando la sentenza della Corte di Appello che l'aveva condannata al risarcimento del danno non patrimoniale.

Si legge nella sentenza che, come rilevato dalla Corte Costituzionale, i permessi di cui alla L. 104/1992 e il congedo straordinario di cui al D.Lgs. n. 151/2001 sono strumenti di politica socio-assistenziale basati sul riconoscimento della cura alle persone con handicap in situazione di gravità prestata dai congiunti e sulla valorizzazione delle relazioni di solidarietà interpersonale ed intergenerazionale. La tutela della salute psico-fisica del disabile, costituente la finalità perseguita dalla legge n. 104 del 1992, richiede anche l'adozione di interventi economici integrativi di sostegno alle famiglie "il cui ruolo resta fondamentale nella cura e nell'assistenza dei soggetti portatori di handicap".

Riguardo la necessità, ben evidenziata dall'azienda ricorrente, di evitare che le particolari modalità di articolazione della prestazione lavorativa nel caso di part time verticale si traducano, quanto alla fruizione dei permessi, in un irragionevole sacrificio per il datore di lavoro, la Cassazione ritiene che tale questione possa essere risolta tenendo conto della necessità di una valutazione comparativa delle esigenze dei datori di lavoro e dei lavoratori, anche alla luce del principio di flessibilità concorrente con quello di non discriminazione (tra lavoratori a tempo pieno e a tempo parziale), e della esigenza di promozione, su base volontaria, del lavoro a tempo parziale.

Pertanto, appare ragionevole – continua la Suprema Corte - distinguere l'ipotesi in cui la prestazione di lavoro part time sia articolata sulla base di un orario settimanale che comporti una prestazione per un numero di giornate superiore al 50% di quello ordinario, da quello in cui comporti una prestazione per un numero di giornate di lavoro inferiori, o addirittura limitata solo ad alcuni periodi nell'anno e riconoscere, solo nel primo caso, stante la pregnanza degli interessi coinvolti e l'esigenza di effettività di tutela del disabile, il diritto alla integrale fruizione dei permessi in oggetto.

In applicazione di tale criterio, rilevato che la prestazione del lavoratore è stata articolata sulla base di un orario lavorativo settimanale pari a quattro giorni su sei, corrispondente a un part time verticale al 67%, la sentenza impugnata deve essere confermata.

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Cassazione. Possibile il trasferimento del lavoratore che assiste un familiare disabile

In caso di soppressione del posto di lavoro per giustificate ragioni organizzative è legittimo il trasferimento del lavoratore, anche se fruisce dei permessi lavorativi di cui alla legge n. 104/92 per assistere un familiare disabile.

Lo ha deciso la Corte di Cassazione, con la recente sentenza n. 12729/2017, rigettando il ricorso di una lavoratrice (capo tecnico radiologo) che era stata trasferita dal poliambulatorio presso il quale lavorava a un presidio, posto a circa 5 chilometri di distanza, confermando l'esito dei precedenti due gradi di giudizio.

La Corte di Appello affermava, infatti, che il trasferimento era conforme alla disciplina del CCNL del comparto sanità e che le ragioni organizzative avevano ampiamente dimostrato la chiusura del servizio di radiologia presso il quale lavorava.

In particolare, nel ricorso in Cassazione la lavoratrice lamentava che la sentenza impugnata, in maniera implicita, avesse ritenuto insussistente che la stessa prestasse assistenza alla madre disabile e fosse come tale, in mancanza di suo consenso, inamovibile in considerazione della cura e dell'assistenza da prestare al familiare con lei convivente.

La Cassazione non è però dello stesso parere e ritiene il motivo non fondato.

Si ricorda, infatti, nella sentenza che la disposizione dell'art. 33, comma 5, della legge n. 104 del 1992, laddove vieta di trasferire, senza consenso, il lavoratore che assiste con continuità un familiare disabile convivente, deve essere interpretata in termini costituzionalmente orientati in funzione della tutela della persona disabile, sicché il trasferimento del lavoratore è vietato anche quando la disabilità del familiare, che egli assiste, non si configuri come grave, a meno che il datore di lavoro provi la sussistenza di esigenze aziendali effettive e urgenti, insuscettibili di essere altrimenti soddisfatte. Come verificatosi nel caso di specie.

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La lavoratrice madre può essere licenziata solo per colpa grave, non essendo sufficiente una giusta causa di licenziamento prevista nel CCNL per ininterrotta e ingiustificata assenza dal lavoro.

Lo afferma la Corte di Cassazione con la sentenza n. 2004 del 26 gennaio 2017 ribadendo il seguente principio di diritto già espresso con la sentenza n. 19912/2011, per il quale: "il divieto di licenziamento della lavoratrice madre è reso inoperante, ai sensi dell'art. 3 lettera a) del d.lgs. 26 marzo 2001 n. 151, quando ricorra la colpa grave della lavoratrice, che non può ritenersi integrata dalla sussistenza di un giustificato motivo soggettivo, ovvero di una situazione prevista dalla contrattazione collettiva quale giusta causa idonea a legittimare la sanzione espulsiva, essendo invece necessario – in conformità a quanto stabilito nella sentenza della Corte costituzionale n. 61 del 1991 – verificare se sussista quella colpa specificamente prevista dalla suddetta norma e diversa, per l'indicato connotato di gravità, da quella prevista dalla disciplina pattizia per i generici casi d'inadempimento del lavoratore sanzionati con la risoluzione del rapporto. L'accertamento e la valutazione in concreto della prospettata colpa grave si risolve in un giudizio di fatto riservato al giudice di merito, come tale non sindacabile in sede di legittimità se sorretto da motivazione logicamente congrua e giuridicamente immune da vizi".

La vicenda, per la quale è stata chiamata a pronunciarsi la Cassazione, riguarda una lavoratrice, all'epoca dei fatti in gravidanza, alla quale il giudice di appello aveva confermato il licenziamento intimatole dal datore di lavoro per colpa grave, in quanto la condotta della dipendente era riconducibile all'ipotesi del CCNL che sanziona con il licenziamento per giusta causa "l'assenza arbitraria dal servizio superiore a sessanta giorni lavorativi consecutivi", integrando la fattispecie della colpa grave stabilita dall'art. 54, co.3, lettera a) del D.lg. n. 151/2001 quale causa di esclusione del divieto di licenziamento.

La Suprema Corte accoglie il ricorso della lavoratrice e cassa la sentenza impugnata, rinviando alla stessa Corte di appello la quale si atterrà al principio di diritto espresso.

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È nullo il licenziamento della lavoratrice madre durante il cosiddetto periodo protetto, in violazione dell'art. 54 del T.U. n. 151/2001.

Lo ribadisce la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 475 dell'11 gennaio 2017, ricordando che la giurisprudenza di legittimità è costante nell'affermare che il licenziamento intimato alla lavoratrice dall'inizio del periodo di gestazione sino al compimento di un anno di età del bambino è nullo e improduttivo di effetti ai sensi dell'art. 2 della legge 1204/71 (ora art. 54 del D.Lgs. 151/01).

"Per la qual cosa il rapporto deve ritenersi giuridicamente pendente ed il datore di lavoro inadempiente va condannato a riammettere la lavoratrice in servizio ed a pagarle tutti i danni derivanti dall'inadempimento in ragione del mancato guadagno.". La Cassazione accoglie così il ricorso di una lavoratrice, licenziata quando la figlia non aveva ancora compiuto un anno di età, ordinando all'azienda di riassumerla Il rapporto, nel caso in esame, va considerato come mai interrotto e la lavoratrice ha diritto alle retribuzioni dal giorno del licenziamento sino alla effettiva riammissione in servizio.

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Cassazione. Non basta invalidità 100% per l'indennità di accompagnamento

14/10/2016

L'indennità di accompagnamento non spetta, anche in presenza di una invalidità totale, se non vi è necessità di assistenza continua.

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 19545/2016, ricorda che ai fini del riconoscimento dell'indennità di accompagnamento, l'art. 1 della legge n. 18/1980 richiede la contestuale presenza di una situazione di invalidità totale, rilevante per la pensione di inabilità civile e, alternativamente, dell'impossibilità di deambulare senza l'aiuto permanente di un accompagnatore oppure dell'incapacità di compiere gli atti quotidiani della vita con necessità di assistenza continua.

La semplice difficoltà di deambulazione o di compimento di atti della vita quotidiana con difficoltà (ma senza impossibilità), pur in presenza di invalidità al 100% non sono sufficienti per l'attribuzione della indennità.

La Corte rileva comunque – ribadendo una precedente ordinanza - che la capacità del malato di compiere gli elementari atti giornalieri va intesa non solo in senso fisico, ossia nell'eseguirli materialmente, ma anche come capacità di intenderne il significato, la portata e l'importanza, anche ai fini della salvaguardia della propria condizione psico-fisica.

Tale capacità deve essere valutata non sul numero degli elementari atti giornalieri, ma, soprattutto, sulle loro ricadute in termini di incidenza sulla salute del malato e sulla sua dignità come persona.

Pertanto anche l'incapacità di compiere un solo atto può attestare la necessità di una effettiva assistenza giornaliera.

In conclusione, come avvenuto nel caso di specie, il riconoscimento di una invalidità totale non comporta l'automatico diritto all'indennità di accompagnamento, ma occorre anche che vi sia un'impossibilità di deambulare senza l'aiuto permanente di un accompagnatore oppure l'incapacità di compiere gli atti quotidiani della vita con necessità di assistenza continua in modo specifico.

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La Corte di Cassazione, con sentenza n. 17303 del 24 agosto 2016, afferma che il trattamento di disoccupazione non spetta al lavoratore che sia unilateralmente receduto dal rapporto o vi abbia comunque posto negozialmente (e dunque volontariamente) fine, in assenza di una giusta causa di dimissioni.

La Suprema Corte rigetta così il ricorso di un lavoratore avverso la pronuncia della Corte di Appello che gli aveva negato l'indennità di disoccupazione.

Nel caso specifico la Cassazione precisa che la giusta causa, contrariamente a quanto sostenuto dal lavoratore ricorrente, non è certamente ravvisabile nell'asserita impossibilità per lo stesso di progredire in carriera e di crescere professionalmente.

La nozione di giusta causa, infatti, è da ricollegare o ad un gravissimo inadempimento ovvero ad un'altra causa oggettivamente idonea a ledere il vincolo fiduciario, e tanto non può dirsi per la lesione delle pur legittime aspettative di progressione in carriera e di crescita professionale, trattandosi di aspettative di mero fatto, almeno fintanto che la condotta del datore di lavoro non sconfini in una violazione dell'art. 2103 c.c..

In sostanza tale indennità non spetta a chi, avendo la possibilità di proseguire il proprio rapporto di lavoro, rinunzia al posto, ponendosi in tal caso spontaneamente nella posizione di disoccupato.

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